«Onorate tutti, amate i vostri fratelli» (1Pt 2,17)

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    «Onorate tutti, amate i vostri fratelli» (1Pt 2,17)

    Il Segretario di Stato di Sua Santità presenta ai lettori di 30Giorni la versione ufficiale del discorso tenuto da Benedetto XVI all’Università di Regensburg lo scorso 12 settembre


    del cardinale Tarcisio Bertone

    Questa è la versione integrale, comprensiva delle note, del discorso tenuto dal Santo Padre all’Università di Regensburg lo scorso 12 settembre in occasione del viaggio pastorale nella natìa Baviera che ha provocato alcune polemiche con i musulmani pubblicata dalla rivista 30 Giorni diretta dal senatore Giulio Andreotti.

    Si tratta della versione ufficiale del discorso pontificio che contiene qualche piccola variazione rispetto a quello detto a voce ed è arricchito da note, così come era previsto fin dal momento in cui venne pronunciato. Tutti ricorderanno infatti che da subito in calce al testo del discorso in questione la Sala stampa della Santa Sede aveva posto la seguente nota: «Di questo testo il Santo Padre si riserva di offrire, in un secondo momento, una redazione fornita di note. L’attuale stesura deve quindi considerarsi provvisoria».
    Da una lettura attenta e meditata di quella che giustamente è stata chiamata la “splendida” lezione di Regensburg, la quale comunque non era e non poteva essere un pronunciamento ex cathedra, risulterà chiaro il fatto che il suo tema di fondo era il rapporto tra fede e ragione, e non l’approfondimento della questione del dialogo con le altre religioni e con l’Islam in particolare.
    Purtroppo una lettura affrettata del testo, che è stato strumentalizzato anche da chi vorrebbe coinvolgere il Papa e la Santa Sede in veri o presunti scontri di civiltà che non appartengono alla Chiesa cattolica, ha comportato delle reazioni ingiustificate da parte di alcuni settori del mondo islamico.
    Per evitare ulteriori fraintendimenti la Sala Stampa vaticana, questa Segreteria di Stato e poi lo stesso Santo Padre, hanno più volte ribadito che non c’era da parte di nessuno la volontà di offendere chicchessia.
    Già il 14 settembre infatti il padre Federico Lombardi ha chiarito che «ciò che sta al cuore al Santo Padre è un chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza», che non era nelle intenzioni del Santo Padre «offendere la sensibilità dei credenti musulmani», e che è “chiara” volontà del Santo Padre «di coltivare un atteggiamento di rispetto e dialogo verso le altre religioni e culture».
    Il 16 settembre poi, il primo giorno in questo mio nuovo incarico, ho fatto diffondere una mia dichiarazione in cui tra l’altro ho ricordato, qualora ce ne fosse bisogno, che la posizione del Papa sull’Islam è «inequivocabilmente quella espressa dal documento conciliare Nostra aetate»; che «l’opzione del Papa in favore del dialogo interreligioso e interculturale è altrettanto inequivocabile»; che il Santo Padre «non ha inteso e non intende assolutamente fare proprio» il riprovevole giudizio su Maometto dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo e che lo ha utilizzato solo come occasione per svolgere una riflessione che si è conclusa «con un chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza, da qualunque parte essa provenga»; che il Santo Padre «è pertanto vivamente dispiaciuto che alcuni passi del suo discorso abbiano potuto suonare come offensivi della sensibilità dei credenti musulmani e siano stati interpretati in modo non del tutto corrispondente alle sue intenzioni».
    Il 17 settembre, in occasione della recita domenicale dell’Angelus, il Santo Padre in persona è intervenuto sulla questione, dicendo: «Sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso nell’Università di Regensburg, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani, mentre si trattava di una citazione di un testo medievale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale». Nella stessa occasione il Papa ha poi ricordato che il discorso in questione «nella sua totalità era ed è un invito al dialogo franco e sincero, con grande rispetto reciproco».
    Il 20 settembre infine il Santo Padre è intervenuto di nuovo sulla questione. E ha ribadito che la citazione di Manuele II «purtroppo, ha potuto prestarsi ad essere fraintesa». E ha aggiunto: «Per il lettore attento del mio testo, però, risulta chiaro che non volevo in nessun modo far mie le parole negative pronunciate dall’imperatore medievale in questo dialogo e che il loro contenuto polemico non esprime la mia convinzione personale». Il Papa ha poi puntualizzato: «Il tema della mia conferenza – rispondendo alla missione dell’Università – fu quindi la relazione tra fede e ragione: volevo invitare al dialogo della fede cristiana col mondo moderno e al dialogo di tutte le culture e religioni». «Confido quindi» sono sempre parole del Santo Padre «che, dopo le reazioni del primo momento, le mie parole nell’Università di Regensburg possano costituire una spinta e un incoraggiamento a un dialogo positivo, anche autocritico, sia tra le religioni come tra la ragione moderna e la fede dei cristiani».
    A riguardo di questo incoraggiamento a un dialogo positivo «anche autocritico», forse è bene ricordare che nel discorso di Regensburg il Papa non ha parlato solo dei rischi di irragionevolezza presenti in altre tradizioni religiose, ma ha fatto anche un accenno “autocritico” interno alla storia della teologia cattolica. Basterebbe leggere le parole dedicate a Duns Scoto…
    In appendice a questi interventi c’è stata poi la felice iniziativa del 25 settembre, quando il Papa ha ricevuto in udienza gli ambasciatori dei Paesi a maggioranza islamica accreditati presso la Santa Sede e alcuni esponenti delle comunità musulmane presenti in Italia. In questa occasione il Pontefice ha respinto ogni tentativo strumentale, che pure si è manifestato su alcuni mezzi di informazione ma non solo, di voler contrapporre la sua azione a quella del suo venerato predecessore. Benedetto XVI infatti ha ricordato: «In continuità con l’opera intrapresa dal mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, auspico dunque vivamente che i rapporti ispirati a fiducia, che si sono instaurati da diversi anni fra cristiani e musulmani, non solo proseguano, ma si sviluppino in uno spirito di dialogo sincero e rispettoso, un dialogo fondato su una conoscenza reciproca sempre più autentica che, con gioia, riconosce i valori religiosi comuni e, con lealtà, prende atto e rispetta le differenze». E ha aggiunto: «È pertanto necessario che, fedeli agli insegnamenti delle loro rispettive tradizioni religiose, cristiani e musulmani imparino a lavorare insieme, come già avviene in diverse comuni esperienze, per evitare ogni forma di intolleranza e opporsi a ogni manifestazione di violenza».
    Come mai, ci si può chiedere, così numerosi interventi della Santa Sede e dello stesso Santo Padre su una questione così specifica? Per paura? Assolutamente no. Il Santo Padre, il Successore di Pietro, ha voluto anche lui seguire una indicazione che il Principe degli apostoli diede alle prime comunità cristiane: «Onorate tutti, amate i vostri fratelli» (1Pt 2,17). Il Papa quindi ha solo voluto ribadire in modo inequivocabile e intellegibile per tutti il suo voler “onorare” tutti, musulmani compresi, e il suo voler “amare” tutte le comunità cristiane, e in particolare quelle sparse nelle regioni in cui la religione islamica è maggioritaria.
    Non a caso, quindi, il Papa – dopo aver ricevuto in udienza, sabato 30 settembre, il pastore della più numerosa comunità cattolica del Medio Oriente –, in occasione della preghiera dell’Angelus di domenica 1° ottobre, ha voluto dire: «Ho avuto la gioia, ieri, di incontrare Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei, il quale mi ha riferito sulla tragica realtà che deve affrontare quotidianamente la cara popolazione dell’Iraq, dove cristiani e musulmani vivono insieme da 14 secoli come figli della stessa terra. Auspico che non si allentino tra loro questi vincoli di fraternità, mentre, con i sentimenti della mia spirituale vicinanza, invito tutti a unirsi a me nel chiedere a Dio Onnipotente il dono della pace e della concordia per quel martoriato Paese».
    A questo punto, sperando che questo momento non facile possa considerarsi definitivamente superato, mi permetto di aggiungere alcune considerazioni che forse potranno essere di qualche utilità per un più proficuo dialogo tra la Santa Sede e il mondo islamico. Un dialogo che non può non essere intelligente, è ovvio!, ma che deve essere, come ha detto il Santo Padre, anche “franco e sincero” e improntato a un «grande rispetto reciproco».
    Il Cristianesimo non è certo limitato all’Occidente, né si identifica con esso, ma esattamente la democrazia e la civiltà occidentali solo rinsaldando un rapporto dinamico e creativo con la propria storia cristiana potranno ritrovare spinta e propulsione, ovvero quelle energie morali per affrontare una scena internazionale fortemente competitiva.
    Occorre disinnescare il rancore antislamico che cova in molti cuori, nonostante la messa a rischio della vita di tanti cristiani. Inoltre la fermissima condanna delle forme di irrisione della religione – e qui mi riferisco anche all’episodio delle irriverenti vignette satiriche che hanno infiammato le folle islamiche all’inizio di quest’anno – è precondizione indispensabile per condannarne le strumentalizzazioni. Il discorso di fondo però non è neppure quello del rispetto dei simboli religiosi. Esso è semplice e radicale: occorre tutelare la dignità umana del musulmano credente. In un dibattito legato a questi temi una giovane musulmana nata in Italia ha semplicemente affermato: «Per noi il Profeta non è Dio, ma gli vogliamo molto bene». Di questo sentimento profondo occorre avere almeno rispetto!
    Di fronte ai musulmani credenti, ma anche di fronte ai terroristi, il parametro che deve dettare il comportamento non è l’utilità o il danno, ma la dignità umana. Il centro del rapporto tra Chiesa e Islam è quindi preliminarmente la promozione della dignità di ogni persona e l’educazione alla conoscenza e alla tutela dei diritti umani. In secondo luogo e in connessione a questa precondizione non dobbiamo rinunciare a proporre e annunciare il Vangelo, anche ai musulmani, nei modi e nelle forme più rispettose della libertà dell’atto di fede.
    Per raggiungere questi obiettivi la Santa Sede si propone di valorizzare al massimo le Nunziature Apostoliche presso i Paesi a maggioranza musulmana, per accrescere la conoscenza e se possibile anche la condivisione delle posizioni della Santa Sede. Penso anche a un eventuale potenziamento dei rapporti con la Lega araba, che ha sede in Egitto, tenendo conto delle competenze di tale organismo internazionale. La Santa Sede si propone inoltre di impostare rapporti culturali tra le Università cattoliche e le Università dei Paesi arabi e tra gli uomini e donne di cultura. Tra di loro il dialogo è possibile e direi anche fruttuoso. Ricordo alcuni congressi internazionali su temi interdisciplinari che abbiamo celebrato alla Pontificia Università Lateranense, ad esempio sui diritti umani, sulla concezione della famiglia, sulla giustizia e sull’economia.
    Occorre proseguire e intensificare questa strada di dialogo con le élites pensanti, nella fiducia di penetrare successivamente nelle masse, cambiare mentalità ed educare le coscienze. E proprio per facilitare questo dialogo la Santa Sede ha iniziato, e continuerà su questa strada, un uso più sistematico della lingua araba nel suo sistema di comunicazioni.
    Il tutto avendo sempre a mente che la salvaguardia di quell’icona povera e continuamente insidiata ma sommamente amata da Dio – amata per sé stessa, come dice il Concilio Vaticano II – della persona umana è la massima testimonianza che le tradizioni religiose bibliche possono offrire al mondo.
     
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  2. rubio
     
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    RATZINGER E L'INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DEL MONDO SCIENTIFICO

    Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni

    Il discorso di Benedetto XVI nell’aula magna dell’Università di Regensburg, martedì 12 settembre 2006, durante il viaggio apostolico in Baviera


    di Papa Benedetto XVI



    Eminenze, magnificenze, eccellenze,
    illustri signori, gentili signore!

    È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all’Università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell’intera Università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche lei, magnifico rettore, ha accennato poco fa –, l’esperienza, cioè, del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione –questo fatto diventava esperienza viva. L’Università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del “tutto” dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra Università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte a uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’Università, era una convinzione indiscussa.
    Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue1. Fu poi presumibilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano2. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre “Leggi” o tre “ordini di vita”: Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema “fede e ragione”, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
    Nel settimo colloquio (dialexis – controversia) edito dal professor Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihad, della guerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: «Nessuna costrizione nelle cose di fede». È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il “Libro” e gli “increduli”, egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava»3. L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. «Dio non si compiace del sangue», egli dice, «non agire secondo ragione, “syn logo”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire, né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…»4.
    L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio 5. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza6. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese Roger Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria7.
    A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per sé stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore, e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: «In principio era il logos». È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce “syn logo”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un macedone e sentì la sua supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (cfr. At 16, 6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.
    In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo «Io sono», il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso8. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: «Io sono». Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr. Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino a un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la “Settanta” –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a sé stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo9. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire “con il logos” è contrario alla natura di Dio.
    Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 – certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo, “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr. Ef 3, 19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo, “loghikè latreía” – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr. Rm 12, 1)10.
    Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
    Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra11.
    La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte a una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè a una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare a essere totalmente sé stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto della realtà.
    La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi e il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento12 e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’università. Nel sottofondo c’è l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle “critiche” di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla e usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall’una o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come Jacques Monod si è dichiarato convinto platonico.
    Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti a una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
    Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina “scientifica”, del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del “da dove” e del “verso dove”, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla “scienza” intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la “coscienza” soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo constatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
    Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento e inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana e imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, è stato scritto in lingua greca e porta in sé stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
    Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto è – lei l’ha accennato, magnifico rettore –, volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo a essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.
    Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi a essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: «Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno»13. L’Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. «Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio», ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.

    Note

    1 Dei complessivamente 26 colloqui (dialexis), che Khoury traduce: controversia) del dialogo (“Entretien”), Th. Khoury ha pubblicato la 7ma “controversia” con delle note e un’ampia introduzione sull’origine del testo, sulla tradizione manoscritta e sulla struttura del dialogo, insieme con brevi riassunti delle “controversie” non edite; al testo greco è unita una traduzione francese: Manuel II Paléologue, Entretiens avec un Musulman. 7e Controverse (Sources chrétiennes n. 115), Parigi 1966. Nel frattempo, Karl Förstel ha pubblicato nel Corpus Islamo-Christianum (Series Greca, Redazione Th. Khoury – R. Glei) un’edizione commentata greco-tedesca del testo: Manuel II. Palaiologus, Dialoge mit einem Muslim, 3 volumi, Würzburg – Altenberge 1993–1996. Già nel 1966, E. Trapp aveva pubblicato il testo greco con una introduzione come vol. II dei “Wiener byzantinische Studien”. Citerò in seguito secondo Khoury.

    2 Sull’origine e sulla redazione del dialogo cfr. Khoury, pp. 22-29; ampi commenti a questo riguardo anche nelle edizioni di Förstel e Trapp.

    3 Controversia VII 2c: Khoury, pp. 142-143; Förstel, vol. I, VII. Dialog 1.5, pp. 240-241. Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell’imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d’accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica.

    4 Controversia VII 3b – c: Khoury, pp. 144-145; Förstel, vol. I, VII. Dialog 1.6, pp. 240-243.

    5 Solamente per questa affermazione ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano. È in quest’affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni.

    6 Cfr. Khoury, p. 144, nota 1.

    7 R. Arnaldez, Grammaire et théologie chez Ibn Hazm de Cordoue, Parigi 1956, p. 13; cfr. Khoury, p. 144. Il fatto che nella teologia del tardo Medioevo esistano posizioni paragonabili apparirà nell’ulteriore sviluppo del mio discorso.

    8 Per l’interpretazione ampiamente discussa dell’episodio del roveto ardente vorrei rimandare al mio libro Einführung in das Christentum, München 1968, pp. 84-102. Penso che le mie affermazioni in quel libro, nonostante l’ulteriore sviluppo della discussione, restino tuttora valide.

    9 Cfr. A. Schenker, L’Écriture sainte subsiste en plusieurs formes canoniques simultanées, in L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la dottrina della fede, Città del Vaticano 2001, pp. 178-186.

    10 Su questo argomento mi sono espresso più dettagliatamente nel mio libro Der Geist der Liturgie. Eine Einführung, Freiburg 2000, pp. 38-42.

    11 Della vasta letteratura sul tema della deellenizzazione vorrei menzionare innanzitutto: A. Grillmeier, Hellenisierung – Judaisierung des Christentums als Deuteprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in Id., Mit ihm und in ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven, Freiburg 1975 pp. 423-488.

    12 Nuovamente pubblicata e commentata da Heino Sonnemanns: Joseph Ratzinger – Benedikt XVI, Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem der “theologia naturalis”, Johannes-Verlag, Leutesdorf, 22005.

    13 90c-d. Per questo testo cfr. anche R. Guardini, Der Tod des Sokrates, Mainz–Paderborn 51987, pp. 218-221.



     
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    Il secondo è il famoso discorso che ha causato l'incidente diplomatico coi paesi di religione islamica, no?
     
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  4. rubio
     
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    Si, se lo leggete vedrete che non c'è assolutamente nulla di offensivo
     
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  5. bressimar
     
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    infatti, ennesima scusa, serie vignette, degli islamici per attaccare il mondo occidentale... e noi che stimo pure dietro a queste cose...
    che vergogna...
     
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  6. rubio
     
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    In realtà la parte dedicata all'islam diceva che è sbagliato utilizzare la violenza per sostenere la propria fede religiosa
     
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    CITAZIONE (rubio @ 28/10/2006, 09:14)
    In realtà la parte dedicata all'islam diceva che è sbagliato utilizzare la violenza per sostenere la propria fede religiosa

    Cosa che i Cristiani hanno fatto sin quasi gli albori del Novecento :rolleyes: .
     
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  8. due
     
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    CITAZIONE (rubio @ 28/10/2006, 09:14)
    In realtà la parte dedicata all'islam diceva che è sbagliato utilizzare la violenza per sostenere la propria fede religiosa

    Da che pulpito! :censura1:
     
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  9. rubio
     
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    Si ma la nostra è una religione che nel corso dei secoli si è riformata, che ha avuto i suoi conflitti ma al giorno d'oggi non proclama più condanne a morte nei confronti di chi bestemmia, la religione islamica no. Poi spiegatemi una cosa io sento parlare continuamente di islam moderato ma dove stanno questi musulmani moderati?
     
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    Gli stati democratici come l'Egitto o la Turchia, ad esempio. Poi che all'interno di queste nazioni ci siano cellule fanatiche non dipende certo dai governanti.
     
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  11. rubio
     
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    Si ma il loro sforzo per combattere il terrorismo è poco o nullo. Non è che i libanesi si possono lamentare dei raid israeliani se il loro governo non fa nulla per combattere gli Hezbollah. Senza dimenticare che l'undici settembre la gente di Gaza e delle principali città arabe era in strada a festeggiare e non ricordo una sola voce da parte dell'islam che abbia condannato l'attentato.
     
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  12. due
     
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    Non tiratemi fuori l'11 settembre... Tutto come a Pearl Harbor?
     
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    CITAZIONE (due @ 29/10/2006, 14:26)
    Non tiratemi fuori l'11 settembre... Tutto come a Pearl Harbor?

    Non andiamo OT, por favor...
     
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  14. rubio
     
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    Per non andare fuori tema diciamo che il punto fondamentale del discorso di Benedetto XVI è che la violenza per sostenere le proprie ragioni. Io non voglio fare l'intollerante di bassa lega verso l'islam però è un dato di fatto che quando Rushdie ha scritto il suo libro Versi Satanici è stato condannato a morte e quello che per noi sarebbe stato un omicidio per loro sarebbe stata solo l'esecuzione di una condanna a morte, la questione delle vignette ha dimostrato che l'islam deve fare molta strada per arrivare a fare discernimento. Se io vedo Crozza che imita Benedetto XVI o la Guzzanti al massimo cambio canale non li vado ad aspettare fuori della Rai della Sette per farli fuori.
     
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    Beh, vale anche per me. Bisogna capire cosa ha portato una cultura che nel Medioevo era più avvanzata e aperta di quella europea d'allora ad essere diventata terreno d'interpretazione rigida per gruppuscoli fondamentalisti che ogni giorno s'ingrossano sempre più, diventnado associazioni e finanche partiti.
     
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17 replies since 27/10/2006, 09:25   432 views
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